Illustrazione di © Maria Giovanna Marsili

3. Le regole di buona creanza

Capitolo III

Le regole di buona creanza, meglio conosciute come: di buona topanza

Il direttore d’orchestra, maestro Adalberto Detopis, e la consorte Giacinta detta la Topina Duchessa per via della sua smodata passione per Maria Luigia – che di mestiere faceva la mamma affettuosa, la moglie attenta e l’artista a tempo perso (decorava porcellane in perfetto stile liberty), scelsero quel luogo per vivere in tutta tranquillità, stringere relazioni sociali e far crescere secondo regole di buona creanza la generosa stirpe topica.

Illustrazione di © Maria Giovanna Marsili

Giacinta amava più di ogni altra cosa andare a teatro; fresca di messa in piega e maschera di bellezza ai petali di rosa, infilata in un abitino di alta sartoria topica, faceva il suo trionfale ingresso al Teatro Regio, come le signore più in vista della città. Cosa aveva da invidiare a loro? Lei, che era stata Miss Topa dell’anno nel lontano 1885.

Teneva molto al suo aspetto, ora poi che era diventata una first Lady. Il fatto di essere nata roditrice la faceva sentire sempre un po’ inadeguata, specie in certi ambienti; per quanto fosse orgogliosa dei suoi geni topici, lungo il suo cammino si era troppe volte imbattuta in detrattori dei ratti, così li chiamavano schifando la voce “ratti, sporchi ratti” e invece lei era sempre pulita e profumata.

Per mantenersi giovane e bella si affidava alle cure di un’estetista dalle zampe d’oro, una papera bionda che aveva aperto un bellissimo centro estetico a due passi dalla loro abitazione, frequentato da cricetine e pennute di lusso, qualche coniglia di antico lignaggio e anche da un gruppetto di bipede dell’alta borghesia parmigiana, sempre alla ricerca di nuovi elisir di lunga vita.

Nessuna come Papera Angelina sapeva realizzare maschere di bellezza tanto sublimi e lei, dopo ore di impiastri, cerettine e zampecure, poteva competere con le top-model delle riviste patinate.

Suo marito, il grande maestro Adalberto Detopis, uomo all’antica fattosi da sé, giusto per evitare di guastare i rapporti di buon vicinato, aveva stilato un documento ufficiale con 7 comandamenti scritti a caratteri cubitali che, che per nessunissima ragione al mondo, i suoi figlioli, nipoti e  tris nipoti inclusi, avrebbero potuto trasgredire.

Quel foglio di carta di riso, incorniciato a dovere da un artigiano della via, era stato appeso in corridoio, di fianco alla porta, così che lo vedessero prima di uscire.

Recitava: Le sette regole di buona topanza da onorare ogni giorno e mai trasgredire.

  1. Nessuna irruzione notturna in cantine e case dei vicini.
  2. Nessuna trasandatezza: baffi e codino sempre in ordine e ben profumati (vedi, dispensa dei profumi topici nella toilette di mamma Giacinta).
  3. Saluta chi incontri per la strada, anche sconosciuti e bipedi col cappello armati di trappole topiche.
  4. Evita gli eccessi culinari: mai più di due porzioni a settimana di formaggio e croste varie.
  5. Tutti sono ben accolti, senza distinzione di forma, religione, dialetto e gusti musicali.
  6. Non credere mai a chi dice che i gatti sono nostri nemici, potrebbero prendere un gran abbaglio. (* rimando nota a piè di pagina: L’amicizia non bada alla specie né ai pregiudizi).
  7. Non snobbare lo squittio, sono le tue origini, ma impiegalo nei casi strettamente necessari.

Istruzione, passione per la musica e regole di buona topanza erano pilastri su cui si era sempre retto il buon nome della famiglia Detopis, e nessuno ci teneva più del maestro Adalberto ad onorarne il prestigio; squit squit (ecco, qui era strettamente necessario) con tutta la fatica che aveva fatto per raggiungerlo!

Sia ben inteso, era un uomo affettuoso e comprensivo, Adalberto, ma su quei 7 punti non poteva transigere.

Per il resto, i topini di casa erano liberi di scoprire le meraviglie del mondo giocando all’aria aperta, sconfinando negli altri quartieri, anche in quelli più popolari in cui vivevano loro coetanei figli di topi operai, rigattieri, pescivendoli, tornitori, spazzini; come l’Oltretorrente e il quartiere di San Leonardo che sapeva di fumo e di catrame.

I topini di casa erano spronati dagli adulti a fare nuove conoscenze, a mettersi sempre in gioco ed anche a misurarsi con gli sport più estremi (mettetevi nei panni di un topo, ora) come il pattinaggio su ghiaccio e il ciclismo su strada.

Calvénadéntor – il fabbro Ernesto, un corvo dal becco appuntito e arcuato che lavorava dietro casa loro, aveva realizzato per quei ragazzini dalle orecchie grandi e il lungo codino, pattini a rotelle veloci come il vento, da far invidia a quelli che vendevano a prezzi da brivido nei negozi scintillanti.

“Ch’al vena dentor” era solito dire a chiunque passasse davanti alla porta della sua bottega, lasciata scaltramente aperta; lui aveva sempre qualche idea da propinare a qualsiasi avventore; nessuno sapeva forgiare la materia come lui, qualsiasi materia, e ridare nuova vita ad oggetti morti. Per questo tutti anziché Ernesto lo chiamavano così.

Calvénadéntor in un atto di grande devozione per il maestro dell’opera, aveva assemblato una graziosa biciclettina a misura di topo, che quei mocciosi si passavano di mano in mano, cadendo, graffiandosi muso e coda, per poi rimontare in sella come i campioni del Tour de France.

Era sempre una gran festa quando i topici-mocciosi portavano a casa nuovi amici di scorribande, di qualsiasi natura essi fossero: topi di campagna, di città, criceti sfuggiti al supplizio della gabbia, conigli, gatti, piccioni, bassotti, o qualche animale tropicale, pappagalli per lo più che le signore della Parma bene vezzeggiavano come amanti, povere creature costrette a ripetere “sei-la-più-bella-la-più-bella” quando invece avrebbero voluto gracchiare “faccia-di-cornacchia-faccia-di cornacchia-è-più-bello-il-mio-culo-che-la-tua-faccia!”.

Insomma, in quella casa di Via del Tasso, tutti erano sempre i benvenuti.

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