“Pura Vida” mi saluta Aleandro, il ragazzo alla reception dell’Hotel, un moraccione niente male dallo sguardo profondo che potrebbe essere scambiato per un italiano del Sud.
“Qué tal esta’ usted?” mi porge la mano. Anche se è la prima volta che c’incontriamo ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Saranno le decine di telefonate che gli ho fatto dall’Italia per accertarmi che tutto fosse a posto. Dopo i convenevoli e qualche ragguaglio su come muovermi in questo nuovo paese, mi accompagna nella mia stanza che si affaccia su di un piccolo giardino di mangrovie.
Lo informo della mia valigia e anche lui mi assicura che arriverà entro un paio di giorni. Deve essere la prassi, qui. O forse anche lui conosce la Legge dell’attrazione. A questo punto credo che riuscirò a sopravvivere con le poche cose che ho avuto l’accortezza d’infilare nel bagaglio a mano.
Niente shopping dissennato per le vie della capitale, dunque. E per la prima volta ci vedo una nota positiva in tutto questo. Al momento mi risparmierò la fatica di disfare la valigia, incombenza che ho sempre detestato.
Una doccia refrigerante mi aiuterà a schiarirmi un po’ le idee. Dopo un giorno d’imbarchi, atterraggi e sfinenti attese, sono finalmente giunta a destinazione e una piccola parte di me, la donnina pigra e davvero poco temeraria, si domanda perché sia venuta fin qui.
Poi… eccomi la risposta. Sono venuta fin qui perché troppe volte ho invaso i tuoi spazi, i tuoi versi, la tua musica, in quelle lunghe, stramaledettissime notti di agonia, oltrepassando il filo spinato che dà la scossa, cercando un po’ di conforto nel tuo studio, il mio luogo di culto.
Ah, che smania di tormentarmi l’anima m’assaliva!
Avevo pregato la signora delle pulizie di non venire per un paio di settimane, il tempo di fare il punto della situazione. Ero certa che tu saresti ritornato nel giro di qualche giorno e quindi non mi andava di fare un doppio lavoro: eliminare le tue cose, stiparle in grossi scatoloni di cartone sui quali a pennarello avrei trascritto: Biancheria, Abiti eleganti, Scarpe e cinture, Libri e vari, per poi doverle risistemare al loro posto. Tentavo, allora, di fare l’inventario della nostra vita insieme: le mie cose, le tue cose, le nostre cose. Tre matriosche che si contengono a vicenda. Tre vite irrimediabilmente separate.
Mi sdraio sul letto e in un’ istante ho la sensazione di sprofondare. Giù, e ancora più giù. Ma non per via della mia spossatezza o della pressione troppo bassa, no. Qui, i casi sono due, o questo materasso ha l’età della mia bisnonna, oppure deve aver accolto e presenziato a parecchie peripezie amatorie. Con i suoi estenuanti cigolii ad ogni minimo spostamento e la totale rilassatezza delle sue fibre centenarie, più che su di un letto mi sembra di essere approdata su di un isolotto ad acqua. E, comunque, dovrò farmelo andar bene perché al momento l’unica alternativa sembrerebbe essere la spiaggia. Nel piccolo quadro appeso alla parete, due pescioloni gialli nuotano in un mare smaltato di blu, sul fondo alghe color smeraldo sventagliano le lunghe braccia viscose. E’ un tripudio di colori, di suoni soffocati. La voce di Jennifer Lopez spazza via stralci di silenzio “…Alive, Amar Para Siempre… Baila… Do You Know Where You’re Going To? El Deseo De Tu Amor…”.
Mi lascio avvolgere da quelle note suadenti, dal ritmo gitano che incalza e si espande dentro e intorno a me. Alive. Amar. Para Sempre. Dio, mi sento così a pezzi. La doccia anziché refrigerarmi ha tirato fuori fiondate di stanchezza accumulata nelle ultime settimane. Al lavoro, ho dovuto correre come una maratoneta prossima al traguardo per riuscire a lasciare tutto in ordine in previsione della mia partenza.
“… Ora i libri li vendo, ma trovo anche il tempo per leggerli, non credevo che anche qui arrivassero le ultime novità del mercato editoriale. San Josè è una città che offre grandi possibilità d’impiego. E’ progredita, vivace, animata da studenti volenterosi che arrivano da ogni parte del mondo. Qui c’è l’università di medicina più importante di tutto il centro America…”.
Ecco, buono a sapersi, nel caso decidessi di fare il medico! Rigiro tra le mani la tua lettera imparata a memoria.
La rivelazione.
Dopo tre anni di cinico silenzio vengo a sapere che ti sei trasferito in Costa Rica e che ti sei messo a vendere libri in una bella e luminosa libreria di San Josè. Come si chiama? No, quello hai pensato bene di tacermelo. Di certo temevi una mia visita inattesa con tanto di scenata coniugale e un visto da poter rinnovare ogni tre mesi! Mi domando il senso di queste informazioni, allora, se davvero volevi tenermi all’oscuro di tutto…
“… Penserai che ho sbagliato, che mi sono comportato da codardo.“
Codardo? Sappi che è l’ultimo degli aggettivi che avrei usato per definire il tuo gesto. Bastardo. Vigliacco. Sporco traditore. Maledetto sciagurato. Inaffidabile cazzone…
L’universo ti adora perché conosce le tue più ampie intenzioni, punto numero 7 della Legge dell’Attrazione. Ho sognato di ucciderti qualche volta, veleni, pasticche, nessun’arma, sai che ne ho orrore. Seguita ad adorarmi quest’Universo?
…Ti sarai sentita tradita, posso immaginarlo, sarebbe successo anche a me se tu te ne fossi andata senza dirmi niente.
Tu, Francesco? Ma cosa stai dicendo: tu non mi avresti lasciata andare via, avresti fatto di tutto pur di rimettere insieme i cocci, a costo di rovinare le tue belle mani di pianista. Io, invece, tu… noi… Non mi hai lasciato nemmeno il tempo… eri già la, nel tuo nuovo mondo, nella tua nuova vita, quando tentavi di ripulirti la coscienza con le mie lacrime asciutte.
… La verità è che ogni giorno qualcosa cambiava in me, cresceva, senza che io potessi capire cosa. Chi fosse. Una forza che si accaniva contro la mia apparente tranquillità, la mia vita perfetta di quarantenne sposato, benestante, appagato. Perché, cosa potevo volere di più? So di chiederti troppo, Matilde, pregandoti di capirmi, di venirmi incontro. Mai e poi mai avrei voluto farti soffrire, credimi, sei la persona in assoluto…”.
Mi alzo dal letto, afferro la spazzola di ferro, mi dispongo davanti al mozzicone di specchio inchiodato alla parete del bagno e prendo a pettinarmi i capelli con una foga che non riesco più a domare. Se solo riuscissi a strapparmi dalla testa tutti i pensieri, come capelli sfibrati che restano impigliati alle setole di ferro di questo mio nuovo strumento di tortura.
“…Sei la persona in assoluto più importante della mia vita…”.
A memoria. Un esercizio sterile della mente.
“…Mi hai sempre compreso, capito, sostenuto. E credo di aver fatto lo stesso con te. I nostri valori sono sempre stati gli stessi. Ma, a un certo punto della vita…”
A quale punto della vita, scusa, puoi dirmelo? In quale preciso istante te ne sei reso conto? Perché, vedi, io non me ne sono affatto resa conto. Se sei la mia estensione non-fisica avresti potuto farmelo capire in qualche modo, no? Un tremolio interno, un bel paio di stigmate sulle mani, una psoriasi da manuale? E invece, niente. Questo significa che ero cieca, che non riuscivo più a vederti, a sentirti, a capirti, così distante da te, così presa dal mio lavoro, così egoista, così stronza?
… Mi sono reso conto che avevo bisogno di scegliermeli da solo i miei veri valori. Mi ci sono voluti quarant’anni per capire che non esistono valori assoluti. Che quello che desideravo io, per i miei ultimi giorni di vita, poteva del tutto contrastare con le tue esigenze, i tuoi bisogni.
I tuoi ultimi giorni di vita? Ma di che cosa stai parlando? Ti stai cucendo addosso un testamento anticipato di almeno quarant’anni, parli come se dovessi morire da un giorno all’altro, parli come se non ti avessi mai conosciuto veramente.
…I tuoi sogni. E con quelli che c’erano stati imposti da qualcuno al di sopra di noi. Non sono passato dall’infelicità alla felicità, semmai dalla confusione alla consapevolezza. Oggi mi sento un uomo più semplice e sereno. Avevo bisogno di quella nudità che la nostra vita, il nostro mondo, la tua amabile complessità…
Ecco che ci siamo, si tratta di questo. Amabile complessità un cazzo! Non era poi così tanto amabile se hai deciso di dartela a gambe come una giraffa alla vista di un leone, non credi? Basta ricamare con le parole! Posa il filo di lino, questa volta non mi abbindoli. Mi hai lasciata, Francesco, e questo dice più di mille ricami, delle nostre iniziali cucite in corsivo inglese sui nostri cuscini. Non basterebbe un’intera enciclopedia di Diderot per rimediare al male che mi hai fatto. Basta! Non ti voglio più ascoltare. Ho da fare. I miei capelli necessitano di cure. Shampoo e poi balsamo e poi lozione per le doppie punte ai semi di lino e… poi… prendo le distane anche dalla Legge dell’Attrazione che mi ha fatto conoscere Annamaria, la mia insegnante di floriterapia. Lei crede fermamente nella forza del pensiero creativo e per un attimo ci ho creduto anch’io, ma poi rileggo la tua lettera e tutto va a farsi friggere. E la qualità dell’olio è tra le più scadenti che si possano trovare in commercio.
…Non erano più in grado di darmi. Non potevo andare avanti così. Non mi piacevo più, o forse posso confessarti di non essermi mai piaciuto veramente e di aver sempre inseguito una certa immagine di me. L’immagine che più di ogni altra mi faceva sentire a mio agio. Sai, come quando ti provi un paio di pantaloni nei quali ti senti subito bene, e quei pantaloni li trovi più comodi di altri, anche più belli e convenienti. Ma io non ho mai scelto quei pantaloni che ho indossato per tutta la mia vita. E non ne ho mai avuto veramente bisogno. Era un po’ come se qualcuno li avesse scelti al posto mio ed io, per facilitare le cose, avessi deciso di tenermeli sempre addosso.
Sai che ti dico? Non ho mai sopportato quel tuo modo di renderti indecifrabile. L’uomo del mistero. Il Don Chisciotte della metafora. Sei sempre stato molto abile con le parole. Fiumi d’inchiostro spesi per ogni occasione e ricorrenza. Hai sempre saputo affascinarmi e confondermi con quelle tue lunghe lettere, soprattutto all’inizio della nostra relazione. Io non c’ero abituata alle frasi dei grandi filosofi, alle massime sulla vita e sulla morte di quella schiera innominabile di grandi pensatori. Tu li citavi, li prendevi a prestito, o li canzonavi, come fossero stati tuoi compagni di liceo. Una postilla rubata al tale o al talaltro per lasciare un segno indelebile in me. Lo stai facendo ancora, Francesco, con questa lettera che sa di tutto e di niente e nella quale io fatico sempre più a ritrovarti.
…Ora il mio guardaroba è ridotto all’essenziale. Ricordi quando ti dicevo che la felicità non si ottiene aggiungendo, ma togliendo. Ho regalato gran parte dei miei completi firmati a un Ticos di nome Adanìas che alleva vacche brahma in una piccola fattoria vicino a casa. Avessi visto i suoi occhi. Adanìas ha una figlia di nome Tatiana a cui impartisco lezioni d’italiano, dice che finito il liceo si trasferirà in Italia per diventare stilista di moda. E’ una ragazzina di dodici anni, molto perspicace e divertente, e un po’ la sento come una figlia, per quanto sia curiosamente attratta da quanto i turisti possano essere in grado di offrirle o anche solo di prometterle”.
Mi auguro che dietro l’immagine di maturi europei golosi di adolescenti ingenue e carine, non ci sia tu. Non sai le volte che mi sono immaginata una relazione tra te e una studentessa del tuo corso.
Io Humbert, tu Lolita. No, pietà!
Ti è piaciuto quello che hai letto?
Media dei voti: / 5. Voti totali:
We are sorry that this post was not useful for you!
Let us improve this post!
Thanks for your feedback!