Romanzo di viaggio e d’amore.
Ciò che per il bruco è la fine del mondo,
(LAO TSE)
in realtà è una bellissima farfalla.
Preludio
“Anche tu prendi l’autobus del cielo?”.
Il bimbetto biondo avrà su per giù cinque anni e un sorriso da togliere il respiro.
“Io non ho mica paura di volare, lo sai?” alzando il mento verso di me con l’aria di volermi sfidare.
“E tu, c’hai paura, invece?”.
“Forse” dico.
“Forse sì o forse no?”.
“Un po’ sì e un po’ no”.
“Ma non è mica una risposta, o sì o no” puntualizza facendosi all’improvviso molto serio.
“E allora diciamo di sì”.
Il bimbetto si guarda intorno con aria smarrita come se stesse cercando qualcosa.
“Ma tu parti da sola”.
“Sì, parto sola”.
“E allora perché hai detto diciamo se ci sei solo tu. Diciamo è in forma plurale”.
… E ti vengo a cercare…
… anche solo per vederti o parlare…
… Perché ho bisogno della tua presenza
…per capire meglio la mia assenza.
Mi sono imbottita di gocce per dormire, questa mattina, eppure mi sento più sveglia e vigile che una civetta nel cuore della notte. Per non parlare della settimana che ha preceduto il mio viaggio, scandita da puntuali somministrazioni di Fiori di Bach: quattro gocce fatte cadere dalla pipetta di vetro sterile sotto la lingua dove risiedono i ricettori vitali. Mimulus, Cherry Plum, Impatiens, Clematis: ci sono tutti. Ma, niente. Il cuore seguita a martellarmi in petto senza concedermi un solo attimo di tregua; le mani mi sudano e pure i piedi, infilati in un paio di scialbi sandali da turista tedesca.
“Se i cattivi hanno messo le bombe, quelli in divisa lo scoprono: suona tutto, così noi non saltiamo per aria” sussurra il bambino, alzandosi sulle punte dei piedi come se mi stesse rivelando un’informazione segreta.
“A mio papà… hanno fatto togliere le scarpe per vedere se c’era dell’esplosivo dentro”. E scarabocchia nell’aria un’energica esplosione con tanto di effetti speciali.
Aspen. Brutte notizie. Scudo energetico. Perché diavolo Annamaria non ha messo anche qualche goccia di Aspen nella sua pozione magica? Io mi sento tremare all’idea della bomba.
“Se vuoi puoi sederti vicino a me, così ti tengo la mano”.
Gli occhioni chiari del ragazzino si soffermano sulle mie mani sudate che torturano la carta d’imbarco, in una sala d’aspetto affollata di razze diverse, smaniose di partire.
“Sei molto gentile” gli dico, posandogli una mano sulla testolina bionda “ma, non credo ci metteranno a sedere vicini”.
“E tu, dove stai andando di bello?” gli domando.
Lancia un’occhiata di intesa ai genitori che, seduti sulle poltroncine d’attesa, stretti tra una moltitudine di valigie, custodie e videocamere, seguono incuriositi la scena, abbozzando con il volto un tentativo di scuse.
“Io vado a fare le foto ai coccodrilli con i miei genitori” mi dice, sfoderando l’espressione orgogliosa di chi è certo di trovarsi in una posizione di vantaggio.
“Mio papà lo fa di lavoro… il fotografo, no?”.
“Certo, avevo capito. E’ davvero un bellissimo lavoro”.
Il padre, un ragazzone poco più che trentenne dal sorriso solare che il figlio ha indubbiamente ereditato, addenta voracemente un panino imbottito di ogni porcheria più o meno commestibile.
“Anche tu sei una fotografa?” mi domanda, scrutando serio la mia macchina fotografica: una modestissima automatica vinta con un cospicuo ordine di oli ayurvedici medicati.
“No, io non sono brava a fare le foto”.
Mi guardo intorno alla ricerca di un posto libero verso cui dirigermi. Manca ancora un’ora all’imbarco e potrei, nel frattempo, mettermi a leggere la mia guida sul Costa Rica. Copertina lucida, una foresta tropicale abitata da bellissimi esemplari di bradipo.
Bra-di-po, mi viene da ripetere mentalmente. Esercita l’effetto ipnotico di un mantra questa parola ripetuta all’infinito. Vado in un paese di cui ignoro quasi tutto, se non che lo chiamano la Svizzera delle Americhe e che è abitato dalle più belle specie di bradipi e di scimmie urlatrici dell’intero pianeta. Un paese in cui tu hai scelto di perderti per poterti poi ritrovare. Dimmi un po’: ALMENO HAI OTTENUTO QUELLO CHE CERCAVI?
“Se vuoi posso chiedere a mio papà d’insegnarti” mi dice, sgranando gli occhi cerulei in attesa di una mia reazione che certamente si aspetta d’incontenibile felicità.
“Sei davvero gentile sai, ma non credo diventerò mai una brava fotografa. E poi… io un lavoro bellissimo ce l’ho già”.
Come tirarsi la zappa sui piedi da sola!
“Che lavoro fai, tu?”.
Una giovane donna dalle treccine da rasta, gli si accosta prendendolo per mano: “Basta Filippo, credo che la signora abbia voglia di starsene un po’ in pace” rivolgendomi un sorriso che per quanto non eguagli in luminosità quelli del compagno e del figlio, trasmette grande simpatia.
“Le chiedo scusa ma Enrico sembra nato per fare il giornalista, è più curioso di una foca”.
“Oh, ma che dice, suo figlio è un bambino molto simpatico, non mi sta affatto dando fastidio. Viaggiare da soli talvolta fa sentire molto… soli”.
“Bene, se è così allora… io mi rimetto a sedere”.
Non le stacco gli occhi di dosso mentre prende posto a sedere accanto al marito che consulta il tabellone luminoso su cui scorrono gli orari delle prossime partenze. Passo sicuro, pianta del piede che armonizza con la terra, che la cerca e la trova senza opporre resistenza. Ma un leggero ansimo nella voce, ha fatto scattare la studiosa di psicosomatica che dimora in me. Dici una cosa che non pensi veramente. Le chiedo scusa, risento la sua voce, le sue scuse, tutto sommato poco convincenti. Credo non vedesse l’ora di sbarazzarsi un po’ del figlio per godersi in santa pace il marito.
“Le foche non sono per niente curiose” mugugna il bambino con una certa arietta risentita, infilandosi una mano nella tasca dei calzoncini rossi. Solo ora mi rendo conto che una grassa foca nera campeggia – con tanto di fumetto: ‘una foca senza lardo, è come un cielo senza stelle’ – sulla sua T- shirt.
“Sono degli animali simpatici in via d’estensione” borbotta.
L’immagine del placido mammifero dai lunghi baffi e dallo sguardo assonnato, mi fa ricordare la fatica che ancora mi attende. Tre tappe per raggiungere la meta: una prima a Madrid che prevede una sosta di sei ore, senza poter mettere il naso fuori dall’aeroporto; una seconda a Miami, dal nefasto 11 settembre una delle zone a più alto rischio di attentati terroristici, e finalmente l’arrivo a San Josè previsto per la tarda serata, ora locale. Solo a pensarci mi sento stringere da una morsa la bocca dello stomaco e mi viene da scattare alla toilette per lavarmi bene le mani. Penso ai microbi degli altri che campeggeranno sui miei vestiti per poi addentrarsi nei miei circuiti fisiologici, ai colpi di tosse, ai loro sensi di colpa che io respirerò. Crab apple. Il melo selvatico che purifica. Perché non sei qui?
È la prima volta che viaggio da sola, se si escludono quei tranquilli e brevi viaggi di lavoro che ricorrono nella mia vita di guru del benessere olistico non più di due volte all’anno, nei quali le maggiori difficoltà consistono nell’obliterare il biglietto del treno prima di salire e nello scegliere, con una certa accuratezza, il miglior tailleur da sfoggiare per la serata di benvenuto.
Se non fosse per Francesco, per la sua lettera, non sarei mai partita. Non ora che il lavoro e le tratte dei corsi di aggiornamento giocano una partita a ping-pong, senza ne vinti ne vincitori. E che per giunta, là, in quel paese dove mio marito ha deciso di fuggire, è la stagione delle piogge.
“Si informano i gentili passeggeri che il volo per Parigi delle ore 8 e 15 subirà un’ora di ritardo”, la voce metallica esce a singulto dall’altoparlante.
“Tu dove vai, signora?” mi chiede Filippo, scrutando la guida che tengo in mano, il che mi fa dedurre non sappia ancora leggere.
“Credo nello stesso posto in cui andrai tu, la terra del coccodrillo, del bradipo…”
“… Dell’iguana, della scimmia urlatrice, del geco, del colibrì…” attacca eccitato, abbinando ad ogni dito della mano paffuta una diversa specie di animale, e con la chiara intenzione di far sfoggio delle sue conoscenze.
“Già, la Costa Rica” gli dico, sforzandomi di far sorridere la voce.
“Il Costa Rica” mi corregge prontamente lui, rizzando un ditino nell’aria come un maestro che rimprovera i suoi allievi “me l’ha detto la mamma che si dice così”.
“Bene, allora divertiti e fai tante belle foto a tutti gli animali della foresta” battendogli un colpetto sulla spalla e accingendomi a raggiungere una poltroncina libera.
“Anche tu divertiti e fai… tante brutte foto agli animali della foresta“ girando i tacchi in direzione dei genitori.
“E le mie gambe han camminato tanto e la mia faccia ha preso tanto vento”.
Poco distante da me alcuni ragazzi infervorati dall’idea di ciò che li attende cantano a squarciagola improvvisando percussioni e batterie, chi usa il dorso di una valigia, chi due bottigliette dell’acqua e chi una manciata di monetine tenute strette tra le mani a mo’ di maracas. Ancora non so se mi fanno più tenerezza, o più invidia.
“… E le mie mani hanno applaudito il mondo, perché il mondo è il posto dove ho visto te… dove ho visto te”.
Ehi Francesco, tu non ti muovere che io sto arrivando!
Allora, me lo vuoi dire, una volta per tutte, c’è una ragione per cui hai deciso di fuggire?
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