Il nostro incontro
«Aaa amico mio, quaaando a casa tornerai e vedrai la mia ragazza, devi dirle tutto quello che mi sento deeentro il cuor…». Da non credere. Tony era esuberante e aveva un modo assolutamente personale di destreggiarsi sulla scena, di muovere il corpo sceccherando i fianchi, un po’ alla Elvis, un po’ alla sua maniera.
Guardandolo, faceva venire voglia di ballare e io cominciai a ciondolare il capo e le spalle calamitato dal suo inimitabile swing. E, poi, il coretto “yè-yè” era travolgente e lui con la naturalezza del grande performer sapeva rivolgersi ai musicisti dell’orchestra come fossero suoi amici; quando mai l’avrei saputo fare? Venni a sapere, poi, che le parole gliele aveva scritte Gino Paoli, uno che aveva già ottenuto grandi successi, fra cui “Sapore di sale”.
Rimasi ad ascoltarlo e a guardare ogni sua mossa, inclinazione del volto, ammiccamento espressivo. Mi venni in mente io, quando da ragazzino, dopo la folgorante scoperta di Elvis Presley, nella mia camera, in compagnia dell’inseparabile registratore Geloso, mi allenavo sulla sua voce cantando Blue Hawaii e facendo certe smorfie col viso per somigliargli. Anche Tony l’aveva fatto, come poi ebbe modo di confidarmi. Dopo la sua folgorazione sulla via di Elvis aveva preso a studiarne ogni dettaglio, la voce, i movimenti e divorando i suoi film, ogni inquadratura, il modo di guardare in camera, di sorridere, di scuotere la testa. Tutto.
Nati da uno stesso padre musicale, separati alla nascita…
Quando terminò le prove Tony mi venne incontro, qualcosa sembrava aver richiamato la sua attenzione.
«Ciao, che bel ciuffo che hai. Sai, mi piace come canti».
Davvero? Diceva sul serio? Mi aveva ascoltato durante le prove?
«Eh, anche a me piace come canti, Tony». Fu una stretta di mano, di quelle forti, delle sue. Avrei voluto dirgli molto di più ma non sapevo fare i complimenti anche se davvero mi piaceva tutto di lui. Il suo stile, la sua voce, quell’immagine nuova che usciva completamente dagli schemi. Tony era già un beniamino per i giovani, il ragazzo col ciuffo, l’idolo del Cantagiro, l’interprete dei musicarelli, aveva già venduto un milione di dischi. Per lui non faceva differenza se io non ero nessuno e mi presentavo per la prima volta al festival.
Credo sia vero che tra simili ci si intende, bastò uno sguardo per riconoscerci. E noi simili lo eravamo soprattutto per via di quella comune passione per Elvis; una specie di affinità elettiva che ci avrebbe, non solo fatto apprezzare la stessa musica, ma che ce l’avrebbe fatta vivere con la medesima intensità. In effetti, tra alti e bassi, è sempre stata per entrambi il centro di tutto.
«Ti va di mangiare qualcosa?» mi chiese. Come poteva non andarmi? Oltretutto in quel periodo avevo sempre una gran fame, mi trattenevo per via dei soldi (pochi) non certamente per restare in forma, ero un giunco.
Nel parcheggio del casinò, quella mattina, avevo visto una Jaguar verde cipresso metallizzato, roba alla Diabolik, non poteva che essere sua. Chi non sapeva della sua passione per le automobili sportive? I giornali che leggeva mia madre lo mostravano alla guida di quei modelli costosi che si era potuto comprare grazie alle migliaia di copie vendute in Inghilterra dove era osannato come l’Elvis italiano.
Sarei salito su quel bolide?
Io? Con Little Tony? Su una Jaguar verde per le vie di San Remo? Quando mai me lo sarei immaginato!
Ero andato a Sanremo con 10.000 lire nel portafoglio, una grossa banconota rosa con sopra stampato il faccione di Michelangelo. Me l’aveva data mamma Maria con mille raccomandazioni di non perderle, ci avrei dovuto mangiare per dieci giorni. Come mi aveva suggerito, avrei optato per le osterie più a buon mercato, alternandole a qualche panino o a una pizza al volo, per farmeli bastare e non dover restare a stomaco vuoto gli ultimi giorni.
E, invece, quando tornai a casa quella banconota era ancora intatta dentro al mio portafoglio; per dieci giorni fui ospite di Tony che mi portò a pranzo e a cena nei migliori ristoranti della zona e mi fece apprezzare aragoste, scampi, sogliole e champagne.
Tutto quel ben di Dio, ma quando mai l’avevo visto?
Erano sapori nuovi per me, ambienti e atmosfere del tutto sconosciute. Un piccolo mondo di ritualità a cui non avevo mai presenziato e io vivevo tutto come un bambino vive un’avventura, una scoperta. Una sfida, anche solo riuscire a mangiare in maniera decorosa un’aragosta senza macchiarmi la camicia. (E già vedevo la faccia di mia madre, il suo imbarazzo davanti agli schizzi di pomodoro).
Tony, a differenza di molti suoi colleghi, non era un gran mangione e non abusava di niente, né del cibo, né dell’alcol, né di altri stupefacenti. Era uno controllato nella vita, poi si lasciava completamente andare sul palco come in un atto d’amore verso il suo pubblico a cui voleva concedere tutto se stesso.
Non era un mangione ma amava trattarsi bene, scegliendo cibi di qualità, esclusivi, alimenti sani che potessero elargirgli energia senza appesantirlo. Bastava guardarlo per capire quanto tenesse alla sua forma fisica, un aspetto che lo avrebbe contraddistinto per sempre, divenendo a tratti una sorta di fissazione per il cibo sano e il fisico asciutto.
I ristoratori di Sanremo lo conoscevano ormai tutti e spesso ci offrivano la cena in cambio di un autografo o di una foto con lui da esporre nel proprio ristorante.
Fu un’esperienza bellissima restargli accanto in quei giorni di festa e adrenalina alle stelle; i flash erano tutti per lui e le ragazze lo acclamavano urlando il suo nome e mettendosi in fila per un autografo. Non so come riuscisse a mantenere per così tanto tempo un sorriso aperto, contagioso e molto credibile. Un po’ bullesco ma “de core”. Io non ci sarei mai riuscito, nemmeno dopo anni di allenamento. Quello che a me usciva, mettendoci impegno, era più un ghigno, una smorfia tra l’imbronciato e lo sdegnoso.
Questione di lineamenti, penso. I suoi morbidi, sensuali, mediterranei, un sorrisetto da “criceto bianco”, due occhi divoranti, incantatori. I miei, più nordici, nobili diceva qualcuno, British qualcun altro. Per essere precisi, direi balcanici.
Durante i momenti di libertà dalle incombenze del Festival Tony, con un entusiasmo travolgente, mi parlava di Elvis Presley e di quanto la sua musica l’avesse ispirato, e anche degli altri suoi beniamini: Cliff Richards e Johnny Mathis e dello swing, del blues, del gospel, del folk, dello spiritual, di come tutti quegli stili si fondessero nella musica del dio del rock’n’roll, e mentre lo faceva usava un linguaggio corporeo così musicale che sembrava si stesse riscaldando per salire sul palco.
Nessuno restava indifferente di fronte a lui, era talmente convinto di quello che diceva che finiva col convincere tutti, senza mai imporre il suo pensiero. Era energico come pochi e si muoveva a tempo di rock’n’roll, dondolando il corpo in un rapimento (gospel) molto terreno. Perché lui era un uomo concreto, pur dotato di immaginazione e dell’euforia dei bambini.
A volte, mentre lo guardavo stentavo a credere che fosse nato a Tivoli nell’epoca in cui la musica più ascoltata era quella di Beniamino Gigli, Luciano Tajoli, Domenico Modugno e del Quartetto Cetra. Che fosse figlio della generazione nata in tempo di guerra, tra stenti e legittimi timori per il futuro. Lui guardava al futuro con gli occhi entusiasti di un ragazzino, mai visto due occhi capaci di irradiare contemporaneamente malinconia e ardimento. Non portava su di sé tracce, quantomeno visibili, dei faticosi trascorsi; delle solitudini inglesi, della paura di non farcela e di dover tornare a casa con nulla di fatto.
Lo avrei capito solo frequentandolo quanto il suo passato lo avesse interiormente strutturato e reso l’uomo professionalmente irreprensibile che era ed è sempre stato.
In quei giorni sanremesi di grande condivisione lo intuii appena, ma poi ne ebbi la conferma: per lui il rock’n’roll era proprio una filosofia di vita, un modo di guardare alle cose, dalle più semplici alle più importanti. Per questo spesso la sua intensità poteva essere scambiata per superficialità ma, Tony no, non lo era affatto superficiale. Semmai era leggero, accordato con il suo senso della vita, leggero come le note musicali che amava ascoltare e suonare, iridescente come le tonalità delle sue giacche. Dietro a tutto quello che mostrava agli altri con tanta spontaneità c’era impegno e disciplina, nulla doveva essere lasciato al caso. Chi lo ha conosciuto lo sa.
Proprio in quei turbolenti giorni sanremesi mi feci un’idea di chi fosse veramente Tony; mentre Mike Bongiorno davanti al microfono pronunciava i suoi (imitatissimi) “Amici ascoltatori, allegria!” e buona parte dell’Europa ci seguiva dal piccolo schermo, io cominciavo a familiarizzare con Antonio, oltre che con Little Tony. Un amore particolare per lo spettacolo che spesso diventava anche maschera con cui proteggere la propria vulnerabilità; e le sue piccole manie, l’energia trascinante, i momenti di riflessione e quelli dedicati alla preghiera, fatti assolutamente privati che non amava condividere con nessuno.
Cominciai a conoscere l’artista ma anche l’individuo che si spendeva anima e corpo per non commettere errori sul palco e si allenava la mattina presto nella camera d’albergo per riscaldare e allungare i muscoli. Io nemmeno sapevo di averli bicipiti e femorali, lo avrei capito più avanti quanto sia importante badare anche all’involucro, tenerlo tonico e in salute. E pensare che nelle donne guardavo solo quello!
E il look. I vestiti di Tony, non per nulla sono passati alla storia; occupavano un posto nella sua vita al pari di un affetto e, ovviamente dovevano essere impeccabili, su misura, pezzi unici. Se li faceva confezionare da sarti di fiducia, uno fra tutti Mastropietro di Roma, poi cominciò a farseli inviare direttamente dall’America o glieli acquistava l’ex moglie durante i suoi spostamenti come hostess, soprattutto giacche di pelle dai colori sgargianti con frange e borchie: la sua passione.
Impiegava ore per accomodarsi i capelli e controllare che il ciuffo cadesse bene, così come la linea dei calzoni e quella della giacca. Tutto doveva cadere bene.
I giornalisti scrivevano che lui imitava Elvis ma la verità è che lui lo prendeva a ispirazione, così come Elvis a suo tempo si era ispirato a Dean Martin. Nessuno nasce già (del tutto) imparato. Tony ne aveva assimilato certi tratti della voce e della gestualità che erano diventati ormai suoi, ma tutto il resto era farina del suo sacco. Tutto il resto era semplicemente Tony; non sarebbe stato così spontaneo, tanto a proprio agio, dentro a un’imitazione.
E, poi, lui vantava un grande privilegio di cui io non avevo beneficiato: passate e formative esperienze lontano da casa, di musica e di vita che per un cantante sono un po’ la stessa cosa. Durante la sua permanenza in Inghilterra aveva respirato l’euforia dei giovani che ballavano e cantavano davanti ai jukebox le canzoni della modernità e le ascoltavano alla radio e nei locali. Si era lasciato ammaliare dai grandi della musica americana, Cliff Richard, Gene Vincent, Joe Brown, lavorando in una trasmissione televisiva molto seguita, una sorta di Discoring inglese in cui passavano tutti i grandi nomi della musica moderna: Wham (da cui George Michael prese il nome per la sua band).
Commistioni, seduzioni, semmai; non banali imitazioni, mi sembra riduttivo. L’immediato riconoscersi in qualcosa che si vorrebbe essere, che si ammira e che si avverte come molto vicino a sé. Credo che funzioni così anche nelle arti visive, quando un pittore decide di far parte di un movimento artistico da cui si sente rappresentato perché ne condivide intenzioni espressive e approcci stilistici.
Comunque, che esperienza incredibile deve essere stata, per lui, “the boy with the ducktail”, quella inglese! In quel movimentato sottobosco musicale, antecedente la rivoluzione dei Beatles, lo swing, il Be-Bop-A-Lula di Vincent avevano preso a scorrergli nelle vene, così come gli amori cantati dal grande Elvis a ritmo di rock’n’roll, il rhythm and blues di James Brown e la fusione di più culture nella musica pop.
Una volta che impari ad andare in bicicletta non te lo dimentichi più. Tony tra quel variegato tessuto musicale – dove l’alto si fonde con il basso e ogni suggestione ha pari dignità -, aveva riconosciuto se stesso, la sua anima musicale. Perché avrebbe dovuto rinnegarla? Uniformarsi a qualcosa che non sentiva come suo?
Storia di un’amicizia tra i due ciuffi della musica italiana: Bobby Solo e Little Tony
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